15/06/14

Ritratto dell’artista come giovane calciatore (appunti - due storielle con appendice mitopoietica)



23 aprile 2008

Per la legge “uno non conta, ma due a distanza ravvicinata sì”, trascrivo un paio di episodi della mia adolescenza calcistica per come mi sono stati raccontati da testimoni che allora manco conoscevo.

Prima storiella.
Qualche settimana fa sono andato a trovare Federica A., che si era presa una brutta polmonite. Mentre chiacchieravo con i suoi genitori, siamo capitati a parlare, non so come (ma sì che lo so: come fanno gli adulti... i vecchi...), di quando eravamo giovani, e a un certo punto Raffaele, il padre, è uscito con l’affermazione che io per lui, per un certo periodo, sono stato una specie di eroe. Ha usato proprio questa parola. Pensa un po’: un eroe! Senza che lo sapessi... ma pur sempre un eroe sono stato. Esagerato! (D’altra parte gli eroi mica lo sanno, di esserlo... di solito non ne hanno nemmeno l’ambizione... non vanno in giro con il cartellino sulla giacca e la professione indicata sulla carta d’identità...) E lui viene a dirmelo solo adesso! Non poteva mandarmi qualche segnale prima, che magari mi tornava buono in qualcuno dei frequenti momentacci in cui la mia autostima si eclissava? ...adesso che è andata in esilio senza speranza di ritorno?
Di fronte al mio stupore (genuino, ma che non credo sia riuscito a nascondere un certo compiacimento, peraltro motivato una volta tanto), lui mi ha ricordato il famoso torneo Clusone di quando ero in quinta ginnasio, uno dei miei pochissimi cavalli di battaglia, quello che ricordo sempre, tra l’altro, perché è stato l’anno in cui passavo molte domeniche a studiare i Promessi sposi in quanto la buonanima del mio professore, don Martino, aveva una tale predilezione per il sottoscritto che mi interrogava tutti i sacrosanti lunedì mattina chiedendomi la parafrasi “riga per riga con vostre parole” dei capitoli assegnati (almeno tre per volta), e allora io studiavo e studiavo quel fottutissimo romanzo... a casa prima di partire, e poi in macchina e mentre aspettavamo il nostro turno di entrare negli spogliatoi, e infine negli spogliatoi, mentre mi vestivo... persino quando mi allacciavo la scarpe, con il libro aperto sulla panca di legno e i miei compagni che mi prendevano in giro... l’ultimo anno che ho studiato sul serio – sul serio come lo intendevano i miei insegnanti –, quello che ha segnato il mio odio decennale per i suddetti Promessi, finché non li ho riletti a casa di Angela, che li aveva nella sua piccola libreria, quando eravamo fidanzati, mentre aspettavo che si struccasse e si preparasse ad andare a letto – intere mezz’ore... a volte più: un capitolo a sera press’a poco – per poi tornare al mio di letto, o in giardino, d’estate, a leggere altro in veranda fino alle due o alle tre, contento anche per la riscoperta..., un odio che poi si è tramutato in un amore tale che i pochi anni che ho insegnato al biennio delle superiori ho sempre sostituito quel libraccio con altri per risparmiargli quello dei miei studenti, di odio, che poi non avrebbero più avuto occasione di riprenderli in mano e se li sarebbero sempre ricordati come una tortura, dato che odiavano a priori (giustamente) qualsiasi cosa puzzasse di scolastico, identificandolo con il peggio del peggio della scuola, anche se qualcuno magari lo avrebbe apprezzato, anche grazie a me magari, alla mia passione... ma la maggior parte spesso già rovinati da precoci assaggi alle medie trangugiati a forza sotto lo sguardo sadico di professori che a loro volta odiavano e non capivano un’acca della letteratura che secondo loro insegnavano... Va be’, ma questo cosa c’entra? C’entra, c’entra... la letteratura c’entra sempre.
Insomma, a Clusone c’era ‘sto collegio dove ogni anno organizzavano un torneo a sette (o a nove) giocatori, al quale partecipavano tutte le squadre giovanili più forti della Valseriana e buchi limitrofi. Siccome tra gli ospiti (tra i reclusi, gli ostaggi, i soprannumerari, gli accantonati, gli indesiderati, i respinti, gli abbandonati...) del collegio c’era anche un ragazzo di Fara della mia età, suo padre quell’anno aveva messo insieme una squadra del nostro paese e ogni domenica mattina di quella primavera il nostro gruppetto veniva portato a Clusone stipato in due o tre utilitarie. Eh sì, era la primavera del ’67, l’ultima dell’innocenza. (Della presunta innocenza...) Ricordo che leggevo schiacciato sul sedile posteriore tra due amici che facevano a gara a disturbarmi, cantandomi nelle orecchie, sbraitando, facendo gli asini per ogni nonnulla (come fanno gli innocenti... come fanno gli innocenti al quadrato che si credono smagati...), tra gomitate e pizzicotti, chiudendomi il libro a tradimento ogni due minuti... e che non smettevo fino a quando, per le curve e le frenate e le file e i tornanti, non mi veniva la nausea, l’impulso di vomitare. Mi fermavo prima di farlo però, anche se la tentazione di imbrattare quei cretini era irresistibile... Ma io studiavo dai salesiani, e resistere alle tentazioni era la prima cosa che avevo imparato (imparo subito io... senza stare a distinguere se è il caso o meno: ho questo difetto). Chiudevo il libro, gli occhi, e inspiravo forte, a fondo, trattenendo il respiro finché potevo... chiedevo di abbassare i finestrini e subito mi avvolgeva l’aria della pineta...
Quello che non ricordavo era che tra i compaesani del collegio c’era anche Raffaele, forse perché più giovane di tre anni. Altra generazione! Era ancora alle medie il tapino, tra i piccoli, da solo, lontano da casa, dove tornava solo per le vacanze, con poche visite e, come capita, in quanto isolato e straniero (in Valseriana sull’argomento non ci vanno leggeri, come è noto), i suoi compagni non si facevano scrupolo di prenderlo in giro (ci godevano di brutto, a dirla tutta), tanto più che l’unica cosa che si poteva sapere lassù del nostro paese di origine erano i risultati della Farese, allora in terza (e ultima) categoria, che la pagina sportiva dell’Eco di Bergamo riportava impietoso ogni lunedì. Una sconfitta dietro l’altra, e pesanti anche... disfatte che si protraevano per interi campionati, senza neanche la catartica umiliazione della retrocessione a una categoria inferiore, dove magari qualcuno più debole, da mazzolare a nostra volta (nostra della Farese), si sarebbe anche trovato. Ultimi dell’ultima categoria... Quelli della pianura, già che non sono veri bergamaschi (e quindi umani a malapena, a voler essere larghi di manica come insegna il cristianesimo), non sanno giocare... sono scarsi, gracili, impediti... gente che parla senza aspirare, con quell’intonazione melliflua semimilanese da donnette... donnette in tutto e per tutto anzi... mezze seghe, al massimo. Raffaele ci soffriva.
E così, quando mi ha notato nella squadra appena scesa in campo (d’estate mi vedeva giocare all’oratorio o nel torneo notturno), nella speranza di una rivalsa trasversale mi ha indicato ai suoi aguzzini pronosticando che li avrei lasciati tutti a bocca aperta e che avrei segnato entro il primo quarto d’ora, pregando tra sé che non lo deludessi. Quelli si sono messi a ridere. Chi, quel piccoletto cicciottello? Caso volle che alla prima azione che mi è capitato il pallone tra i piedi (così ricorda ancora Raffaele... io no... forse inventa... forse era la seconda azione o la terza... è la trasfigurazione eroica, il nimbo del semidio...), ho dribblato mezza difesa e ho segnato. Poi ne ho segnati altri, non ricorda quanti... almeno tre o quattro. Fatto sta che, da quel momento, come mio “amico” è stato più rispettato e per lui si è consolidato il mio ruolo di eroe, di idolo. E ancora se ne ricorda, dopo quarant’anni, come fosse ora... Ma pensa te! Tanto più che poi siamo arrivati secondi, cosa che non era mai capitata a una squadra “esterna”, e io ho vinto il trofeo di capocannoniere. Diciassette gol in cinque partite! Dicasi diciassette (17)! Ho ancora la foto della premiazione, in bianco e nero, piccola, con i margini dentellati, che tengo il trofeo in mano, i capelli corti, la maglia a righe che addosso si stortavano ad ogni movimento perché mi andava stretta (come ho detto ero robusto, quasi cicciottello), il sorriso un po’ storto di quando sorrido a comando, ma gli occhi, quelli sì, contenti davvero. Lo sguardo pulito e sereno. (Allora l’avevo sempre così... Ma anche oggi, suvvia... anche se non proprio sempre.) Il trofeo invece se l’è preso mio fratello Mario che per anni si è vantato con i suoi amici di averlo vinto lui. Prima ha staccato la targhetta con la data però. All’epoca aveva un anno e mezzo, anche se già mi somigliava. (Adesso è meglio, mi pare... meglio di me, intendo.)
Poi Raffaele mi ha raccontato (avevo ancora la bocca spalancata per la sorpresa) che si ricorda anche di avere giocato qualche volta con me all’oratorio, e che aveva imparato molto, perché io indicavo sempre ai miei compagni come giocare, dove spostarsi, come marcare questo o quell’avversario... cose così. Magari le dicevo incazzato perché non le eseguivano, perché stavo perdendo... ma per lui erano segnali di attenzione, parole di cui fare tesoro, autorevoli... Gli eroi non parlano a vanvera!


Seconda storiella.
Oggi stavo fumando una sigaretta sulla panchina fuori dal bar dove ogni tanto vado a giocare a scopa. Seduto accanto c’era Vito, un signore con cui, grazie alle carte, ho ripreso contatto da poche settimane dopo decenni che non ci vedevamo. Non che fossimo mai stati amici, ha 5 o 6 anni più di me (altra generazione!), ma c’è stato un periodo negli anni ’70 in cui ogni tanto ci incontravamo, credo nel momento glorioso del circolo artistico farese, e allora qualche parola ci sarà pur capitato di scambiarcela. Parole così, dette e dimenticate all’istante... Può darsi che solo io non gli abbia dato peso, però... ero un po’ supponente all’epoca... intransigente. Sempre cortese comunque... noblesse oblige. (O ero uno stronzo e basta?) Adesso invece, sulla panchina, sotto un bel sole che un po’ mi stordisce, parliamo del più e del meno come due che si conoscono da sempre. Pacati. Sereni. Stiamo bene e ci piace essere lì. In quel mentre esce dal bar un signore che mi saluta. E’ il padre di un mio ex-allievo, un po’ strano all’epoca, a cui ho voluto bene (forse glien’ho voluto proprio per questo... mi capita spesso) e mi  saluta sempre con qualche deferenza: “prufesùr...”, e un accenno di inchino. Gli rispondo con l’identica cortesia (non più supponente) e poi dico al mio vicino: “Ti ricordi quando faceva l’arbitro di calcio?”. Invece di rispondermi, lui mi fa: “Mi ricordo la prima volta che ti ho visto giocare...”. Lo guardo allibito.
“Non mi risulta che ti sia mai interessato di calcio... non credo di averti mai visto giocare, nemmeno all’oratorio...”, gli faccio. Ma lui non mi risponde, come se non mi avesse sentito. “Era una partita organizzata dall’Atalanta...”, continua invece, concentrato sul suo ricordo. Chissà da dove viene... Ci avrà mai pensato altre volte? ...o è solo adesso che per la prima volta gli torna alla mente? Magari invece quel che ha visto di me quel pomeriggio è sempre stato parte integrante della mia persona ogni volta che mi ha incontrato successivamente... parte del mio nome ogni volta che lo ha sentito nominare in questi quarant’anni. Magari tutto ciò che ha sperimentato, conosciuto, sentito di me, non è stato che un corollario di quello, un aspetto secondario, poco significativo. Non che cambi qualcosa... Sono cose risapute, peraltro. Tanto più che nella sua vita io non ci sono mai entrato, come lui nella mia... siamo stati, l’uno per l’altro, esseri marginali, nomi o poco più. Adesso che sto scrivendo, mi viene in mente di aver pensato ogni tanto a lui passando davanti alla casetta dove abitava con sua madre (il padre non lo ricordo, forse è morto presto), vicina a quella dove ho abitato tra i sette e i quattordici anni, e di essermi chiesto in quelle occasioni, ma solo per un attimo, che fine avesse fatto... dove vive ora. (Ha sempre abitato in paese, ma pensa un po’! ...e per più di trent’anni non ci siamo mai incrociati! Curioso...) “...una di quelle partite che gli osservatori organizzavano con i migliori ragazzi delle varie zone per selezionare pochi eletti per le squadre giovanili dell’Atalanta... ti ricordi?” “Eccome no?” E’ stato uno dei miei giorni di gloria, un altro dei cavalli di battaglia che a volte sforno, senza esagerare, ai miei studenti (i maschi, più ottusi...) per accrescere la mia autorevolezza ai loro occhi... anche se non ce ne sarebbe bisogno: quella intellettuale, per chi la capisce, o quanto meno dialettica, basta e avanza... non per vantarmi... (Taccio del resto.) In certi momenti però, quando me ne servo (quando mi faccio bello), mi viene come il dubbio di esagerare, chissà perché... che il ricordo, nitidissimo, sia in qualche modo falso, un ricordo schermo... uno dei tanti. Ma a Vito non dico niente, lascio che sia lui a raccontare... così potrò finalmente fare un confronto, una verifica... a meno che anche il suo ricordo non sia in qualche modo sfalsato, distorto, a sua volta schermo... (Ma lui cosa ci guadagnerebbe?)
Così lui continua: “Sono rimasto letteralmente a bocca aperta...” (come sono io, di nuovo, adesso). “Non ti avevo mai visto giocare prima, e hai fatto una partita straordinaria... a parte un bel po’ di gol... (continua! continua! ...5 gol e un palo per la precisione... ma non glielo dico... continua!) ...avevi un grande controllo di palla... uno scatto fulminante, sul breve... insospettabile data la tua struttura un po’ cicciottella (esagerato: era robusta... solo robusta... e poi si sa che i tarchiati, quelli con il baricentro basso, più vicino alla terra, hanno un controllo migliore... maggiore equilibrio... superiori capacità di muoversi nello stretto) ...dribbling... passaggi precisi... lunghi lanci millimetrici...” (miele! ...ambrosia!). “Mi pare che poi ti hanno selezionato, ma tu non sei andato... o sbaglio? Perché non sei andato?” (Dunque i miei ricordi erano corretti! Non mi sono inventato niente... non ho mai abbellito o ingigantito con il passare degli anni... per il bisogno di chissà che compensazione... E’ tutto vero! Non ho falsato niente... l’origine è reale, non mitica!)
Gli spiego succintamente perché (anche se del vero perché non sono sicuro... quello sì che forse l’ho distorto... forse inventato: avevo appena iniziato il liceo, covavo altri progetti... forse non credevo abbastanza nelle mie capacità... nel mio fisico), lui ascolta, dà una boccata alla pipa e annuisce (ma cosa annuisci? ...cosa vuoi capire che non ci capisco niente io?) e quando rientriamo nel bar gli offro da bere.
Poi lo straccio a scopa. 


Appendice mitopoietica
Domenica 10 marzo 2019, dopo aver postato su Facebook il giorno
prima una foto ritrovata di una squadra di calcio del ginnasio che aveva suscitato varie reazioni positive, con la mia faccia da bambino che fa tenerezza, quantomeno a me, mi è venuta l’idea di rilanciare per la seconda o terza anche queste due storielle dal mio blog. 


Tra le varie reazioni, scrive la Federica A. del testo (che sarebbe poi la mia carissima F. Arnoldi):

Me l’ha raccontato di nuovo venerdì, giuro. Stavolta ha detto “Un grande, un graaaaaaande”. Non ricordavo il passaggio in cui lo descrivi straniero in Valseriana, noi faresi “gente che parla senza aspirare, con quell’intonazione melliflua semimilanese da donnette”. Ho riso tantissimo.

E poi ancora:

Ah! Venerdì ha aggiunto nuovi dettagli, ha detto: “quando i miei compagni hanno visto arrivare i faresi hanno iniziato a prenderci in giro, ma io quando ho visto Luigi gli ho detto: sì, sì, ridete, ridete. Oggi non riderete più”.

Così nascono le leggende.


Guerriero!

1 commento:

  1. Caro Luigi, come al solito mi hai regalato un dieci minuti (il tempo di leggere ambedue le storielle) di piacevolissimo sollievo: 1° esiste ancora la possibilità di scrivere, visto che almeno tu lo hai fatto alla grande (niente pomposità, autoironia e tante tantissime cose che sporcherebbero il tuo racconto della noia critichese) 2°, contrariamente a quanto sostieni coi cretini che ci cascano (io ho corso il pericolo), non hai mai smesso di farlo.
    In marineria il Capitano comanda il Macchinista: "avanti tutta". federico

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