05/12/14

Georges Perec, Il condottiero




“Si scrive una sola opera”, dice Georges Perec in una delle interviste raccolte in En dialogue avec l’époque (ed. Joseph K., 2011), esprimendo un’idea non proprio originale, come capita spesso a quelle vere, e proprio per questo si è fatto un punto d’onore che ogni suo nuovo libro differisse dal precedente. Ha quindi moltiplicato gli accorgimenti per non ripetersi, ancor prima di entrare nell’Oulipo, attraverso decostruzioni, variazioni e contaminazioni di generi e registri, ricorsi a giochi e restrizioni di ogni tipo (le famose contraintes: regole, vincoli, passaggi obbligati), differenti declinazioni di personaggi e temi che prima o poi finiscono per tornare e che allora tanto vale giostrare consapevolmente, incursioni nel teatro e nel cinema, per non parlare delle innovazioni nella scrittura e nelle tematiche saggistiche, tanto che verrebbe più facile pensare a lui come a uno scrittore disperso in mille rivoli (e anche un po’ dispersivo, non fosse che la morte prematura impedisce un giudizio sulla possibile quadratura a venire) più che a uno che temesse di ripetersi e di risultare monocorde. E invece i vari frammenti della sua opera, pur non perdendo la propria unicità e specificità, sono andati a comporsi in un quadro unitario come i pezzi di un puzzle tanto amati e ricorrenti anche nelle sue parole e nei suoi testi, l’omogeneità di fondo è emersa anche tra le opere più disparate, e la varietà è andata a formare un reticolo complesso e multidimensionale che pian piano ha assunto i connotati del suo autore, come un (auto)ritratto a chiave, una originale e completa autobiografia indiretta fatta di tanti frammenti che tutto sono, all’apparenza, meno che autobiografici.
È anche questo che ha reso Perec una delle figure più influenti della cultura, e non solo della narrativa, a cavallo dei due secoli, come testimoniano anche i saggi che la rivista Europe (n. 993-994, febbraio-marzo 2012, a cura di M. Decout) ha voluto dedicargli invitando a parlarne scrittori e studiosi internazionali, tra i quali Vila-Matas, Celati, Josipovici, Sheringham e Benabou. Ma è anche quello che permette, come dimostrano i saggi raccolti nella rivista, da una parte di attingere a uno o più aspetti per articolarli in un percorso di lettura coerente e rivelatrice, come altrettanti fili e stratificazioni che da un’opera all’altra si sono venuti intrecciando e stratificando, e dall’altra di ritrovare, pur nella diversità dei composti, alcuni elementi base ricorrenti e per certi aspetti caratterizzanti del suo lavoro: nuclei narrativi, oggetti, personaggi, reticenze o costruzioni a latere o innalzate su un vuoto, o un silenzio programmatico (come la morte del padre in guerra e la deportazione della madre e di molti famigliari ad Auschwitz). E questo anche nelle numerose raccolte postume e negli inediti che sono stati via via pubblicati.

Il 3 marzo, esattamente nel trentesimo anniversario della sua scomparsa, è uscito da Seuil, per le affettuose cure di Claude Burgelin che lo ha corredato di una prefazione acuta e ricca di ricordi e informazioni, l’importante romanzo giovanile Le condottière (p. 203, E. 17; trad it. E. Ferrero, Ed. Voland, 2012), il primo che Perec abbia giudicato davvero “finito”.
Scritta dopo due altri romanzi abbandonati con pochi rimpianti, quella che abbiamo tra le mani è l’ultima delle quattro versioni diverse anche nel titolo che si credevano tutte perse. Terminata nel 1960, cioè cinque anni prima del vero libro d’esordio di Perec, Le cose, ristampato l’anno scorso da Einaudi, che gli ha subito dato una certa notorietà con la vittoria al Prix Renaudot, questa ritrovata è la redazione che Perec riteneva definitiva, e che è stata rifiutata da vari editori, in particolare da Gallimard che pure aveva dato all’autore un incoraggiante anticipo. Non si può dargli torto. È infatti un’opera molto interessante per gli studiosi e i tantissimi cultori di Perec, ma che non mi sentirei di consigliare a un lettore che desideri cominciare a conoscerlo, anche se ha il vantaggio di mostrare l’autore agli esordi.
Dopo molte trasformazioni, la trama si attesta sulla storia di un giovane falsario, Gaspard Winckler, che dopo dodici anni di felici, riusciti e impuniti, falsi di ogni genere e epoca, viene richiesto un lavoro molto importante dal suo committente Anatole Madera, che gli concede la più ampia libertà di tempo e di scelta dell’autore da falsificare. Gaspard si orienta su un Antonello da Messina (si noti la somiglianza con il nome del committente e l’uguaglianza delle iniziali) nell’intento di farne anche il proprio capolavoro: non un semplice falso nato dall’isolamento di vari dettagli da diverse opere dell’autore e dalla loro ricombinazione che dia luogo, come un puzzle, a una nuova figurazione, ma un’opera originale che eguagli quella del modello senza esserne una filiazione: che sia cioè “la creazione autentica di un capolavoro del passato” (p. 58), qualcosa che dia la misura non della propria abilità di contraffazione, ma dell’altezza di un’arte propria, personale quanto più rinuncia al proprio marchio e nome per identificarsi totalmente con quelli di Antonello. La scelta cade su un Condottiero, simile a quello che Gaspard può ammirare al Louvre, concentrato di forza e nobiltà e decisione che contrastano esemplarmente con i dati del suo carattere, da cui in tale modo vuole liberarsi: dalla corazza che lega i suoi gesti e insieme protegge la sua vita, che ha sempre più l’impressione di star mancando. Dopo un anno e mezzo di preparazione e pochi giorni di lavoro febbrile una volta trovato il passaggio verso il compimento dell’opera, smaltita l’esaltazione finale, Gaspard si accorge di avere miseramente fallito il suo obiettivo. Il fallimento diventa quello della sua vita, degli amori abbandonati che ora mancano, delle decisioni non prese, di una immediatezza e naturalezza di cui si sente espropriato e che ora cerca di recuperare sgozzando il suo protettore, con quello che sente come il primo gesto “naturale” della sua vita (p. 196). Il romanzo parte dall’omicidio e vi ruota attorno, raccontando gli antecedenti, l’apprendistato e il lavoro di Gaspard, i suoi successi professionali, gli incontri spesso mancati o mai davvero approfonditi, le responsabilità non assunte, i tentativi di spiegazione del suo gesto che dà a se stesso e a un amico nei numerosi dialoghi della seconda parte, in un susseguirsi di riflessioni che si estendono a tutto campo alle tecniche, all’opera, al mercato dei falsi e alle implicazioni intellettuali e esistenziali che questa attività ha assunto nel tempo per lui.
Alcuni, incluso l’autore, in questa storia di fallimento hanno visto una storia di presa di coscienza e di liberazione. A me non pare. La forma che la vendetta, tema ricorrente nell’opera dello scrittore, assume in questo Condottière, è grossolana e insoddisfacente, e appunto per questo ha bisogno di fughe e infinite giustificazioni. In La vita istruzioni per l’uso non c’è bisogno di nessuna spiegazione della vendetta che Winckler prende su Bartlebooth perché essa è resa inutile dai fatti e dalla perfezione del progetto in sé e del lavoro, che porta doppiamente a compimento l’opera (quella di Winckler e il suicidio di Bartlebooth), mentre nel Condottière la loro urgenza nasce proprio dal fallimento dell’opera (cioè del vero-falso nuovo Antonello). E su un’opera fallita non si costruisce nessuna riuscita, per quante parole ci si spendano sopra. Meglio abbandonarla, come fa Perec con questo suo “primo romanzo compiuto”, dopo i dolorosi rifiuti ricevuti. Meglio perderla, come le sue copie.
Mentre qui Winckler fugge, là si rinchiude, si separa: qui la vendetta è la fuga dall’opera (fallita) nel tentativo di riprendersi la propria vita; là è la concentrazione sull’opera, la dedizione totale ad essa in vista di una riuscita che avrà solo un testimone, e forse nemmeno quello, perché morirà con in mano la lettera del suo enigma irrisolto, il sigillo del fallimento del suo progetto di vita, del suo “uso”: una W dove doveva esserci una X. La sigla di un nome invece di quella dell’incognita.
L’incompletezza della vendetta è la stessa del romanzo, e la sovrabbondanza delle giustificazioni la stessa della volontà di esibire conoscenze e abilità da parte del giovane autore, irretito nelle parole d’ordine dei tempi, come traspare anche dalla forte presenza di richiami alla sociologia marxista e dalla declinazione in prevalenza esistenziale del tema del falso, che peraltro tornerà talvolta anche in opere e dichiarazioni successive, seppure in forme e toni meno ingenui. L’autentico, la vita, la libertà... cose così.
L’altro importante ma significativo fallimento è quello rintracciabile nella scrittura e nella struttura del libro, diviso in due parti per nulla equilibrate né complementari, ricche entrambe di sperimentazioni in genere non risolte in modo soddisfacente. Che Perec non amasse il romanzo tradizionale è un dato di fatto, ma sostenere che fosse ostile alla narrazione sarebbe un errore pacchiano. Del resto l’attitudine sperimentale che caratterizza tutta la sua opera è sempre all’insegna della massima leggibilità, senza farne una questione di stile o di marca personale per darsi coerenza o riconoscibilità (o vendibilità: come un brand), ma sfruttando ogni volta le specifiche risorse delle forme e dei generi adottati, anche se spesso tendendo, nella scrittura, al grado zero di un tono neutro e apparentemente solo referenziale o enumeratorio, attento solo ai luoghi e alle cose (senza per forza fare del narratore un puro voyeur né sposare il nouveau roman), e in realtà brulicante di riferimenti, citazioni, invenzioni e memorie, anche dolorose.
Già in questo primo romanzo Perec esplora modalità discorsive e narrative (per esempio il discorso in seconda persona che tornerà, diversamente declinato in Un uomo che dorme, riedito da poco in nuova traduzione da Quodlibet) e di costruzione della trama che consentano una narrazione non improntata a modelli canonici e tantomeno a una falsa e non problematica spontaneità. Alcuni pensano che siano stati la successiva adesione all’Oulipo, i giochi linguistici e le contraintes a distogliere Perec dalla narrazione: invece sono stati per lui un modo di recuperarla dopo tanti tentativi e mezze riuscite, come quello del Condottière. Non a caso dopo aver portato a termine La vita istruzioni per l’uso, lo scrittore ha sostenuto di avere sì fatto “implodere il romanzo”, ma aggiungendo spesso di aver scoperto, in questo lavoro di demolizione, il più grande piacere di narrare, un vero e proprio “giubilo” di raccontare che non aveva mai provato in vita sua: esattamente laddove il numero dei vincoli e dei passaggi obbligati era stato più alto, e forse proprio grazie ad essi.

Nel Condottière questi esiti non si possono nemmeno intravedere, e tuttavia la strada che vi porterà è già tracciata, nella sua esigenza di base, pur tra le imperfezioni e le contraddizioni, che non cancellano però le numerose pagine già molto acute e riuscite. La lettura offre inoltre quindi numerosi altri motivi di interesse: l’ultimo che conviene ricordare, ma non certo il minore, è quello di incontrare già qui personaggi, temi, forme e persino stilemi tipici del Perec maturo. Trovare le radici nascoste, il germe ancora imperfetto e informe dell’opera a venire che ora si conosce in tutta la sua complessità, è una grande soddisfazione non solo per il critico, ma anche per il lettore devoto, perché ne garantisce analisi e predilezioni e proietta, su una molteplicità che poteva anche derivare da capriccio o vaghezza di intenti, la luce della permanenza e della fedeltà a se stesso, cioè di una necessità ben più solida di quella ricostruibile a posteriori: radici vere, invece che immaginarie e solo immaginate.
In questo senso sarebbe però bello pensare che Le Condottière è stato tenuto nascosto così a lungo per precisa volontà dell’autore, che ne avrebbe dichiarato la scomparsa solo per gusto malizioso, come l’ennesima casella vuota di tante sue opere, come la casella vuota della sua opera stessa (non forse la vita stessa?), con gesto tipico del giocatore che Perec fu. Ma ancora preferibile sarebbe, per me, se a partire da tracce magari sue, da versioni davvero eliminate o perse, il libro fosse un falso da lui commissionato o scritto di propria iniziativa da qualche amico, che però glielo avrebbe per sempre tenuto nascosto.
 

L’articolo è apparso in forma ridotta su Il Sole 24 Ore e su doppiozero.com




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