15/12/14

Stafilococchi, virus, microrganismi, piante, animali (ma non uomini)



 

Ci sono alcuni che si stupiscono (e mi rimproverano: con tutte le cose importanti di cui si può scrivere!) che insisto a parlare nelle mie storielle di alberi, cespugli, boschetti, stradine, canali e acquitrini, cigni, anatre, passeracei e persino, e più di una volta, di vermi e di lumaconi (che però, a quanto mi risulta, sono tra i preferiti di una piccola schiera di lettori un po’ fanatici che ne hanno fatto un microcult, o qualcosa del genere). Nessuno invece ha da ridire dei milioni di storie dedicate agli esseri umani. E che? Il fatto di appartenere alla stessa specie dovrebbe per forza renderli più interessanti? Io, per esempio, a volte trovo più interessante uno stafilococco dei miei vicini (di casa, di città, di stato… soprattutto di stato; sia detto senza offesa né astio: si parla solo di attrazione, di affinità; si sta solo facendo un esempio: lo sanno tutti quanto sono gentile, io…).
Così, se mi guardo attorno in questo periodo e mi limito agli umani (altri primati nella mia zona sono rari: più diffusi gli ovini e gli equini), cosa vedo? (… )
Omissis: mi affido al quinto emendamento. 
Forse è solo perché siamo nei pressi delle elezioni politiche e amministrative, che a dispetto di Aristotele non tirano fuori il meglio da nessuno; o forse sarebbe così sempre. O magari è solo perché mi hanno appena estratto due denti e ho la bocca ancora insanguinata e dolorante. Ma non credo. Invece lo stafilococco, e tutti i cocchi in genere (che già il nome mi piace, anche se preferisco il femminile: e non solo nel nome), il suo fascino ce l’ha eccome! Dico stafilococco, ma non cambierebbe se parlassi delle muffe, come quella benedetta della penicillina, o di uno di quei bei virus o microrganismi che a noi sembrano così tremendi e invece sono solo dei capolavori con altre destinazioni rispetto alle mie; anche se per alcuni, come quello di Ebola, proprio non ci arrivo a immaginare quali. Quello del raffreddore sì, invece. Esseri che la nostra specie si sogna di poter emulare, quanto a plasticità e resistenza e capacità di metamorfosi. Noi ci trasformiamo in stelle solo nei miti (quando ci va bene).
Però, insomma, con i virus alla lunga l’empatia mi viene un po’ difficile: non fa in tempo a stabilirsi, a farmi increspare la bocca in un sorriso o l’anima in una lacrima, che è già dissolta. Con altri esseri viventi i problemi sono meno. Per esempio con le piante. Con le piante riesco persino a generalizzare. Non è che mi piace questo o quell’albero, o arbusto o cespuglio o fiore… cioè sì, anche il singolo, a volte proprio quel singolo più di ogni altro, ma sono anche capace di amarne mille, centomila alla volta. Con l’ Homo sapiens sapiens (il paradosso non è mio: sta già nella denominazione) invece no. Tre o quattro sono già tanti: ci riesco, con questa specie, solo singolarmente, uno alla volta. (Qui invece il deficit è mio, lo concedo volentieri.)
Poi magari li conto, e proprio pochi non sono. Ma mentre gli voglio bene, è a uno alla volta, per qualche minuto o per molti anni, che ne voglio. Se è per poco, può capitare che siano anche dieci in mezz’ora, magari, in certi momenti estatici dalle cause ignote, ma sempre, mi pare, uno per uno.
Non so, se vivessi da qualche altra parte forse riuscirei a guardare ai miei simili in un altro modo, con una simpatia che non si raffredda in proporzione inversa alla distanza. Magari anche con gli uomini riuscirei a estenderla dal singolo al gruppo e da quello alla generalità; e all’indietro: dalla generalità al gruppo e ai singoli, all’individuo unico. Ma vivo qui, e non ci riesco.
Gli stafilococchi e i batteri mi attraggono per la loro varietà e plasticità, ma hanno un difetto, per uno pigro come me: hanno una fisionomia un po’ monotona, troppo elementare: sembrano solo bastoncini, o sferette o filini, magari pelosi, curvi, con una coda a gancio, un ricciolino, e poco più. E sono troppo piccoli, bisogna andarli a scovare, ingrandirli migliaia di volte e colorarli in qualche modo, perché dubito che un colore loro ce l’abbiano, non c’è spazio per queste raffinatezze, si chiudono nel loro corredino genetico e amen. Invece, per esempio, tutti gli animaletti che prosperano tra i nostri peli o sull’orografia dell’epidermide, come gli acari e i loro congeneri, appena ingranditi sfoggiano una varietà fisiognomica che le creature dei videogiochi e dei film di fantascienza si sognano. Pur ispirandosi a loro, ci fanno una figura barbina, lo può verificare chiunque. Però anche loro stancano abbastanza presto, come gli eccessi (quando non distruggono; ma appagano pure, a volte…); e in fondo io propendo, pencolo verso cose che un po’ mi assomigliano, o a cui posso immaginare di somigliare. Qualcosa che posso vedere in giro, ogni momento. E allora mi installo in mezzo, o nei paraggi, con gli animali e le piante.




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