08/03/15

Marco Codebò - Luigi Grazioli, Figura di schiena (ebook, doppiozero, 2014)


 

Già autore di romanzi insidiosi (Lampi orizzontali, Tempesta), in Figura di schiena Luigi Grazioli trasporta la sua scrittura nella saggistica. Figura di schiena è una meditazione sulla presenza di personaggi raffigurati di spalle nella pittura fra il tardo Medio Evo e la prima Età Moderna, con particolare interesse al periodo compreso fra il Quattrocento ed il Seicento nelle aree fiamminga e olandese. Carattere essenziale delle figure analizzate da Grazioli è che nascondano i tratti del volto, in una parola la loro indecifrabilità. La presenza di tale tratto è la ragione per cui la discussione si ferma sulle soglie del Romanticismo escludendo, ad esempio, Friedrich: qui i personaggi, anche se di schiena, vengono però decifrati dal paesaggio che è oggetto della loro contemplazione.
Dal punto di vista della storia del pensiero estetico, la presenza di figure di schiena durante il Rinascimento inserisce una visibile contraddizione nell’allora prevalente teoria albertiana della pittura, che in nome di un approccio scenico allo spazio prescriveva la visibilità di tutti gli oggetti della rappresentazione. Si spiega così la maggior diffusione di figure di schiena nelle opere realizzate da pittori dell’Europa settentrionale, dove il pensiero di Leon Battista Alberti esercitava un influsso minore che nell’area latina.
Grazioli fonda il suo saggio su una notevole erudizione: lo studio prende in esame una vasta gamma di fonti secondarie, fra le quali spiccano per importanza Agamben, Arasse, Stoichita e Todorov, e si sofferma su 92 opere pittoriche, dal Compianto sul Cristo morto di Giotto (1304-06)  a L’enseigne de Gersaint (1720) di Watteau; punti forti della riflessione sono l’analisi della Madonna del cancelliere Rolin (1435) di Van Eyck e soprattutto dell’Atelier (1666 circa) di Vermeer, quadro verso cui confluiscono tutti i fili del discorso di Grazioli.
imageIn estrema sintesi, ciò che attira Grazioli nella figura di schiena e che la rende meritevole di analisi è la sua capacità di perturbare, scombinare, manomettere. Il problema della figura di schiena è che non ti lascia vedere quello che lei guarda. Nel momento in cui ti segnala qualcosa, (ciò che lei sta probabilmente osservando) che potrebbe diventare oggetto del tuo sguardo, gli fa anche da schermo, così da mettere in moto un’esperienza alla Tantalo, con tu spettatore attanagliato da una fame di vedere inestinguibile per definizione. Non contenta, la figura di schiena è anche portatrice di cattivo esempio, in quanto simbolo di ciò che non si deve fare, del comportamento asociale. A lei non importa nulla degli altri: mentre gli sguardi di tutti confluiscono sulla scena comune, la figura di schiena se ne disinteressa completamente e gira le spalle per farsi gli affari propri. In più, sfugge alle categorie con cui tutti classifichiamo e apprendiamo il mondo: non mostra i tratti del volto e così facendo non permette la propria identificazione come individuo. Ma proprio perché è un non-individuo, paradossalmente, finisce per essere più unica di qualsiasi individuo, visto che è la sola a non possedere il tratto comune dell’individualità. In coerenza con tale singolarità, la figura di schiena diventa l’elemento anarchico del dipinto: inserita nell’ordine armonioso della rappresentazione, lo rifiuta e se ne va, con un gesto secessionista che non prevede future riconciliazioni.
I tratti appena delineati fanno sì che la figura di schiena si configuri come promessa di apertura. Irrealizzabile promessa, è chiaro, perché nella sua sfuggevolezza la figura di schiena non ci consentirà mai di raggiungerla e di verificare il passaggio dal promettere al realizzare. L’apertura, insomma, dà inizio a un gioco di rinvii illimitati in cui lo spazio di discorso che si intravvede al di là della schiena si slarga all’infinito senza possibilità di chiusura.  Ma se le cose stanno così, allora, come si fa a parlarne della figura di schiena? Qualsiasi analisi se ne faccia si finirà sempre per intoppare davanti ad un margine oscuro, su cui si potrà tornare quanto si vuole senza mai però venirne a capo. Il che appare perfettamente logico, perché se della figura di schiena si potesse dire tutto, allora sarebbe una figura di fronte.
Da un simile giro vizioso non si può uscire. Ci si può però entrare dentro e sperare di cavarsela se si adotta una scrittura come quella di Grazioli: mobile, sdrucciolevole, avvinghiante. Figura di schiena procede attraverso una serie di spirali discorsive comunicanti che rilanciano la speculazione senza mai arrestarla in un punto. Si tratta, appunto, di una scrittura di schiena, nel senso che a leggerla uno le corre dietro a perdifiato, ma lei gli sta sempre davanti ironica e irraggiungibile.
Non è una presa in giro però. Alcuni punti solidi alla fine emergono. La gigantesca figura di Vermeer, per cominciare: Grazioli lo colloca alla fine di un intero ciclo dell’evoluzione della pittura come attività sociale (da prestazione subordinata di mano d’opera ad arte che innalza i suoi adepti, Rubens, Van Dick, Velázquez, all’altezza dei potenti della terra). Nel contesto della sua epoca Vermeer è l’artista che fa secessione, passa la vita in un angolo della provincia olandese e quando decide di mostrarsi lo fa dando la schiena al mondo. Il doppio ruolo, poi, che la figura di schiena gioca nei confronti della visione dello spettatore e di quella del pittore. Per il primo la figura di schiena rappresenta l’inciampo che segnala il limite dell’interpretazione e gli suggerisce di abbandonarsi all’avventura della speculazione. Per il pittore, infine, la figura di schiena è un antidoto all’orgoglio. È l’indizio di cecità che ogni visione, anche la più acuta e profonda, di necessità contiene: insegnamento che vale anche per l’autore di Figura di schiena nonché, ancor di più, per il suo recensore.

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Questo testo è stato pubblicato in Le reti di dedalus, che ringraziamo.


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