03/12/15

Alcune cose che ho visto alla mostra di Giotto a Palazzo reale di Milano


Nel frammento di affresco dell’Annunciazione, proveniente dalla chiesa di Badia e ora in deposito presso il Polo Museale Regionale della Toscana, già molto mutilo di per sé e con la testa dell’angelo staccata a parte secoli fa, pare, da qualche uomo pietoso, o astuto, prima che andasse tutto distrutto o ricoperto da qualche altro strato di intonaco, e finita chissà dove; al centro della più ampia zona mancante, forse appartenente al muro dello sfondo o all’arco che si diparte dall’immancabile colonnina tortile, collegamento tra cielo e terra ma anche raffigurazione dell’infigurabile secondo Didi-Hubermann, della presenza reale di Cristo già nel momento in cui ne viene annunciata la nascita, colonnina che separa, e rende quasi inaccessibile, Maria conturbata dal messo celeste, e si direbbe come in fuga, a giudicare da ciò che resta della postura e dalle pieghe delle vesti, che sarebbe, a mia conoscenza, una delle prime raffigurazioni veramente mosse e drammatiche di questo momento, il primo dei cinque in cui l’annunciazione è solitamente scandita; al centro di questa ampia superficie deserta, dicevo, mi colpisce la presenza di un piccolissimo frammento di pochi cm2 coperto da uno strato uniforme di grigio quasi identico a quello, neutro, del supporto dell’affresco. Guardo e riguardo ciò che resta delle immagini, cercando di capire ciò che confusamente riesco a vedere e di immaginare il tanto che mi sfugge, ma a ogni tragitto che lo sguardo traccia da un dettaglio all’altro e in lungo e in largo per tutto lo spazio salvato, ogni volta torno a fissarmi su quel minuscolo, incongruo frammento.
 
Non riesco a evitarlo. Lo fisso, e la cognizione di tutto il resto sfuma, spinta ai margini della percezione, come cosa secondaria già archiviata. Me ne sto, inebetito, a chiedermi cos’è, come mai è lì, perché hanno voluto recuperarlo e perché mai lo hanno collocato esattamente in quel punto, cosa ci fa, cosa vorrebbe significare, e mi sembra di essere perduto nell’insensatezza, come lui nel vuoto della pittura assente.

Poi, mentre mi aggiravo tra le sale, stordito da tanto splendore, incapace di strapparmi dall’incanto (come le due anziane signore che mi avrebbero accompagnato più tardi lungo il percorso della mostra sulla Natura, che non hanno fatto altro che modulare senza pause tutte le sfumature e i toni della sorpresa e della meraviglia nonostante qualche rara frase non esclamativa le denotasse come persone in qualche modo a conoscenza dei fatti e delle tecniche), ma per tentare almeno di farlo, come per una deriva di questo primo sguardo mi sono soffermato su alcuni dettagli, pur conscio di quanto fatuo rischiasse di essere il gioco. 
 
E così, nel polittico che proprio nella chiesa di Badia troneggiava, ora agli Uffizi, mi è parso di riscontare nell’ultimo santo a destra, uno splendido San Benedetto tutto avvolto da un manto scuro con in mano un libro rilegato da una copertina o protetto di panno esso pure scuro, indizi di un ritratto vero e proprio, magari di uno dei committenti, l’abate del convento per esempio; se non che, guardando meglio, ho ritrovato alcuni dei suoi tratti nel San Nicola sul lato sinistro, che invece, pur bello, era più stereotipato. Solo un po’, non del tutto, come gli altri santi del resto, tutti con un’espressione pensosa, con una sfumatura più corrucciata San Pietro e più melanconica San Giovanni, mentre il bimbo, che con la manina si aggrappa al collo della veste della madre facendo grinze nel tessuto, lui, sorride. Questo motivo non è molto diffuso nella pittura del ‘200 (il polittico è del 1295-1300), ma mi piacerebbe sapere con precisione a quando risalgono le prime attestazioni. È bello conoscere quando una figura comincia a sorridere.

 

Poi guardo le mani, non tutte dipinte in modo accurato, a parte quelle, guantate, di San Nicola; e, quando sono visibili nelle opere successive, anche i piedi nudi, a volte con dita davvero impressionanti, come quelle dell’angelo annunziante del polittico di Bologna.


Nello splendido Dio Padre della Cappella Scrovegni, raro esempio del momento che precede l’Annunciazione, le mani invece sono accurate, nonostante la collocazione in alto sulla lunetta dell’arco trionfale che separa la navata dall’altare avrebbe giustificato anche una maggiore approssimazione, specie la destra, con due dita dipinte in leggero scorcio, con cui Dio comanda a Gabriele di portare l’annuncio a Maria, scena che viene poi rappresentata nei due lati del muro sottostante. Nell’altra mano mi colpisce che non ci siano lo scettro o il globo, ma un’asta fiorita, forse la stessa che l’arcangelo tiene in mano in molte Annunciazioni, ma non in quella sottostante, e che richiama quella che fiorirà tra le mani di San Giuseppe quando si tratterà di scegliere lo sposo di Maria.


Nel Polittico Stefaneschi dei Musei Vaticani, invece, c’è una mise en abyme (un altro motivo piuttosto raro a quel tempo). E va bene, perché ne parlo? Salta talmente all’occhio! Il donatore (cioè il cardinale Jacopo Caetani degli Stefaneschi) offre a San Pietro il polittico in cui entrambi sono raffigurati, rappresentato in modo che se ne scorga lo spessore e la sontuosa architettura della cornice. Non si vede, ovviamente, il verso del polittico (che in realtà era il recto, destinato alla visione dei frati che stavano dietro l’altare), non meno sorprendente del recto, con le scene del martirio di San Pietro e della decollazione di San Paolo, con quella figura di donna (Plautilla, che, martire a sua volta poco dopo, fu presente al supplizio di Paolo) verso cui dal cielo plana, gonfio come paracadute o un deltaplano ricurvo, un panno bianco, la benda per avvolgere il corpo del santo, pare.  Guardando con attenzione il polittico ridotto, si può notare che, ancora più in piccolo ma chiaramente, il donatore ivi raffigurato, tiene in mano un altro ridottissimo modellino, al cui interno è probabile che la scena si ripeta, almeno nell’immaginazione dello spettatore, se non nei dettagli sempre più microscopici come avviene invece nella tela Uno studiolo del sedicente Heinrich Kürz per la collezione di falsi di cui parla Perec nella Storia di un quadro, progressivamente miniaturizzata alla perfezione per ben tre volte. 

Anche qui, almeno nella prima riproduzione, sembra che ci sia tutto, ma poi guardo meglio, e nella tavola centrale, che spunta dal manto del Cardinale e va a finire sotto i piedi del suo santo protettore, Giorgio, ucciso ma non schiacciato, noto un drago, che assomiglia piuttosto a un grande serpente attorcigliato su se stesso, che invece non compare nel modellino. Troppo piccolo perché lo spettatore possa vederlo a occhio nudo? O in parte nascosto dalla cornice rappresentata in scorcio? Oppure, ridotta la scala, scompare perché non poi così significativo? Una macchiolina di pochi centimetri, qui, non ha luogo. L’economia della rappresentazione la decide l’artista. Una macchia non sarebbe importante, porterebbe solo confusione: mentre qui tutto è chiaro e ben definito, nella rappresentazione come già nella concezione, e come tale ha da essere mostrato. Luminoso, irraggiato dal fulgore divino.
Bellissimo!, penso, concedendomi, tra me e me, il superlativo banale, perché è quello che rende meglio l’idea proprio a causa della sua banalità.
E poi penso che a volte, per un po’, senza esagerare, la banalità salva.








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