07/12/15

Milan Kundera, idee sul romanzo (1993)



Per Milan Kundera il romanzo europeo (cioè il romanzo tout court, poiché esso è "opera dell'Europa", tanto che proprio "figli del romanzo", secondo una formula di Cioran, è per lui la migliore definizione degli europei ) nasce dalla "passione del conoscere" e solo nella conoscenza trova la sua "morale", oltre che una possibiltà di storicizzazione nella "successione delle [sue] scoperte" (ad esempio l'humor, il problema dell'azione e la definizione dell'individuo). Conoscenza tuttavia non come atteggiamento sociologico o filosofico, ma come "rivelazione delle possibilità fino a quel momento occultate dell'esistenza in quanto tale" attraverso l'io sperimentale del personaggio. È quindi appena ovvio che il "pensare" abbia un posto importante nella sua opera, che vi abbondino come personaggi poeti, musicisti e artisti e i loro discorsi e le loro riflessioni, che poi il narratore raramente si lascia sfuggire l'occasione di chiosare.    Che in aggiunta Kundera senta anche il bisogno di scrivere dei saggi su quegli stessi argomenti potrebbe sembrare pleonastico, se non fosse che il pensiero nel romanzo, anche quando ha come oggetto l'arte, è diverso dal pensiero sul romanzo: il primo è sempre ironico, relativo al personaggio e alla sua storia, mentre il secondo è più diretto e più direttamente preso in carico dall'autore, che vi espone le proprie tesi e vi si espone. È proprio questo però che, anche quando sono numerosi i motivi di dissenso, fa amare i saggi degli scrittori (da James a Calvino), specie se, come sempre fa il romanziere boemo, la lucidità non si disgiunge mai da una grande passione. Viceversa il romanzo, per definizione, non può essere a tesi senza distruggersi, diventando strumento di propaganda, che è totalitaria anche quando denuncia il totalitarismo, come 1984 di Orwell (non si dice "senza imbastardirsi", perché la bastardaggine, o il meticciato se si preferisce, è la sua condizione). Ogni volta che difende una tesi, il romanzo diventa vittima della storia, peggio se della storia che si pensa vincitrice in futuro, mentre invece la sua storia non è altro che una forma di vendetta contro "la storia tout court".


   A L'arte del romanzo Kundera aveva già dedicato un libro molto bello nel 1986 (trad. it. di E. Marchi e A. Ravano, Adelphi, 1988); ora esce da Gallimard, scritto direttamente in francese, Les testaments trahis. I nove saggi di questa seconda raccolta, ricchi al solito di divagazioni, analisi concrete e autoanalisi, riprendono alcuni dei temi della prima (la forma del romanzo; il problema dei personaggi e quelli dello scrittore emigrato; i rapporti tra lirismo e terrore...) e altri ne aggiungono, in particolare riguardo alla musica, alla sua storia e al confronto con quella del romanzo.
  Entrambe le arti, anche se non parallele, secondo Kundera si sono sviluppate su due tempi separati da una cesura, che per la musica si estenderebbe lungo tutto il XVIII secolo mentre per il romanzo si situerebbe tra il XVIII e il XIX, "cioè tra, da un lato, Laclos, Sterne, e dall'altro, Scott, Balzac." Il secondo di questi tempi non avrebbe sviluppato che pochissimi dei temi presenti nel primo, letteralmente rimuovendo gli altri, tanto che tutti coloro che si sono discostati da questa linea sono stati di fatto misconosciuti, travisati (la kafkologia che santifica Kafka leggendolo in tutti i modi tranne che quello artistico) o attaccati dai portabandiera del secondo (valgano per tutti le difficoltà di Janacek o il trattamento subito da Stravinski da parte di Adorno).
   Per Kundera invece proprio tra coloro che hanno proseguito nella direzione indicata da questa linea minoritaria della modernità e che si sono riallacciati al cammino che sembrava non poter più condurre da nessuna parte dei primi maestri (Rabelais, Cervantes, Sterne e Diderot), tra coloro cioè che non ne hanno tradito il testamento, si trovano i rappresentanti più significativi del romanzo contemporaneo e le soluzioni più proficue per il futuro. Oggi infatti il principale problema del romanzo, ma anche la sua principale risorsa, consisterebbe nella ripresa dell'estetica del primo tempo e nei vari modi in cui è possibile conciliarla con le esigenze della composizione emerse nel secondo. Nient'altro che questo avrebbero fatto "i più grandi romanzieri del periodo post-proustiano" (Kafka, Broch, Musil, Gombrowicz) e quelli della generazione successiva (Garcia Marquez, Fuentes, Rushdie, Chamoiseau, coloro che hanno continuato la tradizione europea "tropicalizzando" il romanzo): "essi hanno integrato la riflessione saggistica all'arte del romanzo; hanno reso più libera la composizione; riconquistato il diritto alla digressione; insufflato nel romanzo lo spirito del non-serioso e del gioco; rinunciato ai dogmi del realismo psicologico (...); e soprattutto: si sono opposti all'obbligo di suggerire al lettore l'illusione del reale."
   Non è difficile riconoscere in questa enumerazione alcune delle caratteristiche principali del lavoro di Kundera stesso fin dai suoi esordi. A ricordarcelo è la recente traduzione della commedia Jacques e il suo padrone, scritta a Praga come un "addio sotto forma di divertissement" alla sua vita di scrittore subito dopo l'invasione russa, in circostanze che gli sembravano segnare "la fine cruenta della cultura occidentale quale era stata concepita all'alba dei Tempi moderni" e secondo intenti ben illustrati dal saggio che la precede. Nella commedia, molto divertente, la varietà delle avventure e delle divagazioni di Jacques il fatalista è ridotta alle tre storie degli amori di Jacques, del suo padrone e di Madame de la Pommeraye, che "sono di fatto ciascuna la variazione dell'altra", montate secondo la "tecnica della polifonia" con una "trasgressione manifesta delle cosiddette leggi della costruzione drammatica". Tale riduzione non è un "adattamento" , ma una "variazione su Diderot" e al tempo stesso un "omaggio" a questa "tecnica" tradizionale. L'adattamento infatti è un metodo da reader's digest che Kundera disprezza proprio in quanto vi legge una delle "tendenze più profonde del nostro tempo, e [gli] fa pensare che un giorno tutta la cultura del passato sarà completamente riscritta e completamente occultata da suo stesso rewriting", mentre la "variazione" riprende in maniera scoperta i suoi modelli raccogliendone liberamente la lezione senza tradirla, ovvero tradendola nell'unico modo lecito, quello creativo.                                                                                                           
   Anche se non difende "l'inviolabile verginità dell'opera d'arte", Kundera pensa infatti che vadano rigorosamente rispettati i testamenti degli autori, sia quelli impliciti nelle loro opere (ma è possibile definirli con precisione senza ricorrere a categorie giustamente screditate come "spirito", "originale", "autenticità" o "essenza"?), sia quelli esplicitamente lasciati alla loro morte (si veda il caso di Brod con Kafka, che Les testaments trahis affronta diffusamente). Egli ama gli autori del primo tempo perché sono liberi, sovrani burattinai della propria opera che incarnano la "concezione suprema dell'autore", ma spesso si ha l'impressione che vorrebbe limitare questa libertà parteggiando per certi eredi contro certi altri o auspicando il controllo totale e "definitivo" dell'opera da parte del suo autore, come ha fatto Stravinski, che in vecchiaia ha inteso dare in sala di registrazione la versione "legittima" della sua opera alla quale tutte le altre letture dovrebbero attenersi per sempre.
   È legittimo chiedersi invece se Kundera non confonda il narratore con l'autore, anche se è comprensibile che voglia difenderne i diritti (intesi anche come "diritti d'autore), e se la sua distinzione tra libertà (vera) e arbitrarietà non vada quanto meno sfumata. Il margine di errore, o addirittura la sua definizione, in letteratura, è forse meno importante della sua intensità, della forza e della produttività del travisamento, vero o presunto. L'opera stessa di Kundera, del resto, lo sta a dimostrare.



Milan Kundera, Les testaments trahis, Gallimard, 1993, P. 325, FF. 110
Milan Kundera, Jacques e il suo padrone, Adelphi, 1993. P. 112, £ 12.500


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