22/12/15

Autoritratto di Gerard Ter Borch, 1666-70.



In questo quadretto dalle misure non enfatiche, il pittore si ritrae in piedi di tre quarti, con il piede sinistro parallelo alla cornice e il destro perpendicolare, chiusi in scarpe lucidissime guarnite da un nastro di seta (mi pare: o velluto) e con tacchi a zeppa, modernissimi, di altezza berlusconiana. La testa è girata un po’ verso lo spettatore e gli occhi lo guardano con uno sguardo che di primo acchito può apparire ottuso, ma poi tradisce una curiosità un po’ sorniona, da marpione ironico e compagnone, che non contrasta con la rotondità paciosa del volto, dalle guance pienotte di chi non si fa mancare nulla, non ancora cascanti (il soggetto ha cinquant’anni), gonfie, sebbene non quanto il corpo, la cui volumetria è piuttosto accentuata che mascherata dall’ampia mantella che arriva alle ginocchia, di seta nera con bordo di velluto, o pelliccia rasata, pure nero, che conferisce all’insieme, oltre a un tocco di eleganza non volgare da uomo di successo pratico del mondo e della buona società, l’imponenza di un sarcofago molliccio (o di una vivanda al cartoccio pronta per essere infornata, mi ha fatto pensare l’orario di pranzo ormai superato), non fosse per le gambette che ne spuntano, dai polpacci in proporzione piuttosto sottili, non grassi né muscolosi, comunque.  O forse è proprio questo lo sguardo che si addice a un pittore che, nonostante le sue molte figure di schiena e certe scenette tanto ambigue che a volte è difficile attribuire loro un titolo accettabile (basta vedere la cosiddetta Paternale, che alcuni interpretano invece in modo alquanto più malizioso, secondo me più plausibile), che presta molta, magistrale, attenzione, affettuosa e mercantile al contempo, alla superficie delle cose, ai materiali, ai tessuti e agli ambienti disinteressandosi completamente del suo lato misterioso, se non quello dei piccoli segreti domestici, e al minuetto della vita sociale rigorosamente ritratta nel privato di una stanza, da cui talvolta, al massimo, si intravede qualche altra stanza, giusto appunto per una sbirciatina verso una profondità solo spaziale, per una variazione di luce.

Già famoso in vita come pittore di genere ma soprattutto come ritrattista, tanto che anche una delle sue opere storicamente se non artisticamente più famose, "Il trattato di Westfalia", è di fatto una foto di gruppo nelle cui esigue misure (45,5 x 58,5) è riuscito a stipare l'ottantina di personaggi che hanno presenziato alla firma del trattato di pace di Münster tra olandesi e spagnoli che ha chiuso nel 1648 la guerra dei Trent'anni, Ter Borch fino alla "belle époque" è stato ritenuto superiore anche a Vermeer, di cui  era più anziano di quindici anni e che ha certo influenzato, anche se non si può escludere una controinfluenza negli anni più tardi. Alcuni soggetti e l'accuratezza dell'esecuzione molto simili, in passato, quando il maestro di Delft ancora era poco studiato e avvolto dal semioblio, hanno persino creato problemi di attribuzione, ma sempre in una sola direzione: alcuni quadri era troppo belli per essere di uno sconosciuto, com’era allora Vermeer. Ter Borch non lo vale certamente, ma non è distantissimo e certe sue opere sono incantevoli. E quindi ha tutto il diritto di guardarmi così. 

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