29/01/16

J.M. COETZEE, Deserto




 J.M. Coetzee è nato nel 1940 a Città del Capo, dove vive e lavora. E' docente universitario di letteratura inglese, lingua nella quale scrive, pur essendo di famiglia boera. Considerato il più importante scrittore sudafricano della generazione successiva a quella di N. Gordimer e D. Lessing, è anche autore di libri di critica letterario attento agli sviluppi delle teorie linguistiche e della comunicazione. Le tracce di questo interesse sono evidenti nei suoi stessi romanzi, che infatti presentano quasi sempre un risvolto metanarrativo (specie in Foe,  1986, trad.it. di G.Pilone Colombo, Rizzoli,Milano 1987), peraltro perfettamente integrato al contesto diegetico e funzionale alle differenti tematiche, che affrontano i molteplici aspetti di quello che un critico ha chiamato, con qualche forzatura, "il dramma della coscienza dominante del Sudafrica". Di fatto i problemi sudafricani raramente sono affrontati in via diretta o in chiave esplicitamente politca, e comunque sempre all'interno, o come caso particolarmente rivelatore, di quelli legati all'ineguagliaglianza o "asimmetria" nelle relazioni tra gli uomini e, in queste, alle soglie di sopravvivenza fisica e psichica dell'individuo (come in Aspettando i barbari, 1980, trad. it. di A. Veraldi, Rizzoli, Milano 1983 e La vita e il tempo di Michael K., 1983, trad.it. di E. Giachino, Rizzoli, Milano 1986).


Questo appena tradotto da P. Splendore è il suo secondo romanzo, pubblicato nel 1977. Il titolo originale suona In the Heart of the Country, ed è stato modificato in Deserto forse per distinguerlo da Nel cuore del cuore del paese, il bellissimo libro di William Gass (Einaudi, Torino 1980), e per ricordare invece Dust, il film che la regista belga Marion Hänsel ne ha tratto nel 1985, premiato col Leone d'Argento a Venezia. Ne è protagonista Magda, una delle tante "malinconiche zitelle, ignorate dalla storia, livide come le blatte delle nostre case ancestrali," di cui "la terra è piena", una "zitella arrabbiata al centro del nulla", "figlia-vedova del torvo padre" proprietario di una isolata fattoria nel veld sudafricano.
Un personaggio simbolico che sa di esserlo ma ignora il proprio significato: "se sono un simbolo che lo sia fino in fondo. Sono incompleta, sono un essere con un buco dentro, significo qualcosa, ma non so che cosa, sono muta". Una muta sui generis tuttavia, dal momento che tutto il romanzo non consiste che dei frammenti del lungo delirio per mezzo del quale essa tenta di organizzare la propria storia, di trovarle un senso attraverso cui comunicare con gli altri; eppure muta davvero poiché non vi riesce, abbandonata sempre di più alla propria solitudine a mano a mano che i successivi tentativi di rapporto con gli altri falliscono.
Ma in primo luogo il delirio è prodotto dalla difficoltà di comunicare con se stessa, di far coesistere, fosse pure in maniera precaria, corpo e mente, che sembrano andare in due direzioni opposte senza  riuscire a scindersi completamente. Se infatti alla scheletrica secchezza e alla sterilità dell'uno corrispondono l'ipertrofia e la volontà generatrice, e persino autogeneratrice, dell'altra ("invento tutte queste cose perché queste inventino me"), nondimeno nessuno dei due riesce a prevalere, mettendo a tacere l'antagonista. Ogni tentativo di autodefinizione a partire dall'una si scontra con gli imperativi dell'altro, opposti in apparenza ma identici nella loro esigenza di fondo. Identica  sarebbe la risposta alla domanda che Magda si pone: "sono forse, mi chiedo, una cosa tra le cose, un corpo spinto avanti da tendini e leve ossee, o sono piuttosto un monologo che si muove nel tempo...?"; identica nella sua reciprocità: "sei A proprio perché sei B, e viceversa", se non fosse che proprio dalla reciprocità che Magda soffre l'esclusione.
L'assenza a se stessa è il corrispettivo, e il derivato, di quella agli altri e degli altri; in primo luogo, naturalmente, della madre e al padre. Il rimpianto per la madre, persa nella prima infanzia, è ripetuto da quello per il padre, acuito e sempre in bilico per tramutarsi in odio perché presente lui lo è, e presente fisicamente. Ma l'unione con lui è resa impossibile dal suo rigetto ("per mio padre sono stata un'assenza tutta la vita") o possibile soltanto in ciò che il corpo di entrambi rigetta,  le feci liberate nello stesso secchio: "in qualche parte della fattoria deve esistere un pozzo in cui, intrecciati l'uno nelle spire dell'altro, il serpente rosso del padre e quello nero della figlia si abbracciano muoiono scompaiono."
Il padre da cui si è assente opprime con la fora autonoma della sua presenza, chi ha generato blocca la generazione: "oppressa dal peso di mio padre, lotto per dar vita a un mondo ma riesco solo a generare morte"; e allora va eliminato, e con lui la "nuova sposa" con cui si accoppia, la donna "in pace con il proprio corpo" di cui è impossibile "sostenere il sorriso". Ma se è facile eliminare la sposa, come sarà facile per il padre sostituirla con quella del servo, non così semplice è sbarazzarsi del padre stesso, che ogni volta ritorna. E anche durante le sue temporanee assenze lascia il peso dei suoi resti da seppellire e quello del suo mondo che si pepetua. Anche nei capovolgimenti.
Tornano alla mente Althusser, i dibattiti sul rapporto tra Marx e Hegel: reminiscenza non peregrina se si pensa che il romanzo è stato scritto a metà degli anni settanta, tanto più che Hegel vi è esplicitamente nominato e che la dialettica Servo-Padrone vi gioca un ruolo dominante. Tra il padre e il servo Hendrik e Anna, la "nuova sposa" di questi, in primo luogo, ma poi, momentaneamente capovolto, anche tra Hendrik e Anna dopo il secondo parricidio.
Hendrik stupra Magda, se la assoggetta con la violenza; Magda prima si ribella, poi spera che dall'accettazione dell'assoggettamento possa trovare la via ad accettare anche se stessa, la pace col proprio corpo nel dare piacere ad un altro e, attraverso ciò, uno spiraglio verso la reciprocità, la cancellazione dell' "asimmetria (che) rende la gente infelice". Pia illusione, perché Hendrik riproduce, e non può che riprodurre, su Magda la violenza fisica e psichica alla quale prima lo confinava il suo ruolo di servo, senza tuttavia godere della supremazia economica e della legittimazione sociale che rendono tale il padrone. Infatti i soldi non ci sono ed è consapevole che quando verrà alla luce la scomparsa del vero padrone, sarà lui ad essere accusato. Le sue richieste a Magda sono inutili, al pari delle assicurazioni di questa di assumersi ogni colpa: Magda infatti è la figlia del padrone, ma non la padrona, non sa né può gestire il denaro; e non è nemmeno un ibrido: non è e basta, e da questo provengono tanto la sua angoscia quanto la sua impotenza. La violenza subita non la rende pari a quelli che l'hanno sempre subita ed ora la esercitano: è solo un'altra violenza e basta; le parole che dice vengono dal nulla e non saranno mai "parole di vero scambio"; Hendrik e Anna non possono capirla quando li assicura che sono "le uniche persone al mondo a cui (è) legata", perché quando supplica: "io non sono semplicemente una bianca, io sono io! Sono io,  non una persona persona qualunque", nessuna di queste parole ha un senso: un bianco è un bianco, Magda non può pretendere un io che nessuno le riconosce, tantomeno da Hendrik e Anna, che non se lo sono mai visti riconoscere da nessuno e sembra che ormai abbiano persino rinunciato a pretenderlo. Tutti orfani ("naufraghi" dice Cotzee nella parole di Magda), di padri che volano in alto o se ne sono andati senza portare con sé il loro peso.



J.M. COETZEE, Deserto, trad. it. di Paola Splendore, Donzelli editore, Roma 1993, pagg. 160, £ 24.000




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