09/01/14

Libri di amici (1-4) Marco Ercolani, Enrico De Vivo, Roberta Salardi, Lucetta Frisa

Mi sono preso alcuni pomeriggi da dedicare a libri di amici arrivati negli ultimi mesi di cui avevo differito la lettura e ora mi prendo la libertà di dirne qualcosa, sui libri o sugli amici, o su gli uni e gli altri e altro ancora. Non recensioni. Quello che viene, come gesto di affetto e stima. Il resto, se c'è, tanto meglio. Li ho messi come post su Facebook e li riproduco qui, così che siano tutti insieme e sempre visibili. Magari ogni tanto continuo con altri. Non prometto né minaccio. Un caro saluto a tutti.

1) Marco Ercolani
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Comincio con Camera fissa, di Marco Ercolani (Nuova Editrice Magenta, 2013, p. 85, E. 10).
E’ un breve romanzo giovanile, che l’autore ha rivisto a più riprese, fino a questa versione, matura e definitiva, con cui ha vinto il Premio Morselli 2012.
Un uomo giace a letto, incapace di ogni movimento o parola escluso quello degli occhi, in seguito a al fallito suicidio di qualcuno che si è gettato da un palazzo e gli è caduto addosso. Un giorno riceve la visita di un uomo che si rivela il responsabile della sua condizione. Le visite si ripetono, ma mentre l’altro implora il suo perdono, il protagonista ordisce, in modi sottilissimi e con l’aiuto di un vecchio che lo accudisce, insieme la sua vendetta e la propria liberazione.
Il libro è composto di brevi capitoli in cui sono riportate le minime percezioni, ricordi e sogni e progetti del corpo immobile a letto o messo a sedere davanti a una finestra, ridotto a puro sguardo. La camera fissa del titolo, più ancora di quella in cui giace, è quella con cui si identifica quello sguardo, crudele riduzione di un uomo cresciuto da una madre cinefila e lui stesso regista cinematografico. E trame, citazioni, personaggi di film del passato costituiscono il tessuto connettivo tra i capitoli, i personaggi e le vicende: alcuni in citazione e con funzione esplicite, altri in modo velato, come richiamo criptato e chiave di lettura.
Un libro cupo e crudele, costruito con pochissimo eppure denso; un tensione che cresce nell’immobilità di eventi assenti, ridotti a un fiato, a una pupilla che si sposta appena.

2) Enrico De Vivo
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L'autore del secondo, Enrico De Vivo, non è un amico, nel senso che non lo conosco di persona, ma va bene lo stesso: è come se lo fosse, per qualche contatto elettronico sporadico, ma soprattutto per la sua splendida creatura “Zibaldoni e altre meraviglie”, che ha inaugurato di recente anche un'attività di editoria digitale. Il libro si intitola Saggi inventati e esce nella collana “Questo è il mondo” di QuiEdit, Verona, che ha già pubblicato bei libri di altri amici (Walter Nardon Marco Ercolani, Alessandro Carrera, che tra l'altro firma qui una densa prefazione, doppiata da una bella lettera di Massimo Rizzante). E' un libro originale, ricco di analisi e riflessioni e veramente ben scritto, senza la minima prosopopea anche quando affronta tematiche molto impegnative (Averroè, Vico, Agamben) che risolve sempre in uno stile piano che sa tener mantenere appassionata la lettura (come lo è la scrittura) anche i momenti più ardui e si illumina spesso di spunti e anche di espressioni sorprendenti e poetiche, in cui il legame con la comune umanità del vivere e dell'impegno quotidiano non viene mai reciso. Non a caso hanno ampio spazio l'esperienza dell'insegnamento, i problemi della scuola e della trasmissione del sapere e il rapporto con la lingua d'uso, in primo luogo dei ragazzi; ma anche quella in cui i documenti ufficiali lasciano trasparire la vita in classe e le idiosincrasie dei professori (come il divertente, e istruttivo, capitolo finale, che riporta le “Note in condotta” dei registri di alcune classi della provincia napoletana). Ci sono poi bei saggi su Celati (che è un punto di riferimento per molti discorsi, oltre ovviamente a Leopardi), Basile, Walser, ma quello che più mi preme segnalare è quello su In cuniculum di Lapin (La Carmelina, 2009), un libro notevole di un autore ancora poco noto, che ho avuto anch'io il piacere di presentare a Bergamo un paio di anni fa. L'avere dedicato lo stesso spazio e la stessa attenzione a un libro fuori dagli schemi di uno sconosciuto accanto ai grandi nomi che ho menzionato, è l'indizio definitivo dell'onestà e della serietà, e della passione e indipendenza, di De Vivo. Ce n'è più che abbastanza per sentirlo come amico.

3) Roberta Salardi
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Il terzo è un libro di racconti di Roberta Salardi: Mannequins. Dieci fiabe sulla donna-oggetto e altri racconti, Ed ZONA Contemporanea, Arezzo, 2013, pp. 131, E. 13,00. Avevo letto e apprezzato il precedente libro della scrittrice, Regressioni (Effigie, 2010), e devo dire che questo mi sembra anche migliore. Ci sono alcune cose che non mi convincono, a cominciare dal titolo a mio parere troppo esplicito, che indice sospetti di storie a tesi e di denuncia sociologica, da una parte e ambiguo dall'altra (se si pensa alla copertina con una modella che sta sfilando e al fatto che modelle non ce ne sono quasi, se si esclude quelle inconsuete del notevole racconto di apertura dove giovani donne imbalsamate vengono usate come manichini nei negozi, donne di compagnia di miti psicopatici e oggetti di collezione di un critico d'arte che le ha acquistate da un fornitore parente stretto di compari che procuravano i cadaveri in Il dottore e i diavoli di Dylan Thomas), ma non mi adeguerò al giochetto dei recensori che “sì, insomma, il libro è bello, ma discontinuo...” e altre scemenze: è ovvio che in un libro di racconti alcuni piacciano di più e altri di meno. La lettura dei racconti dipende da molti fattori, anche quelli materiali, di orario e umore, e i giudizi sono più facili e epidermici, essendo la forma e la lettura brevi, e quindi variabili a seconda di quelle condizioni
Dunque Mannequins è un bel libro senza ma. Chiuso.
Dirò allora le cose che mi piacciono. In alcune il gioco rischia di essere troppo scoperto, ma in genere l'autonomia della narrazione tiene benissimo e la trappola simbolica resta solo come efficace e non esplicito né univoco sottofondo, al pari del rischio del “voler dire”, della subordinazione magari involontaria al messaggio e al riferimento diretto alla “società” e altre simili ubbie. L'ironia è quella delle situazioni, che poi le proiettano su molti personaggi (specie quelli maschili o, se femminili, di donne legate a immagini, aspettative e ruoli dettati dall'ottica maschilista, magari volontariamente assunti per trarne vantaggio), evitando quella diretta, che diventerebbe schematica: anzi, a volte su di essi lo sguardo non manca di tenerezza. Giova all'ironia il fatto che molte storie siano narrate in prima persona dagli stessi protagonisti, che non vi vedono nulla di straordinario e anzi le riferiscono con il tono discreto e quasi sussurrato di persone timide e miti, o in quello oggettivo degli standard cronachistici, che sono autoparodici già nella realtà, come in “Zapping fatato”. Il distacco, l'astensione dal giudizio o da qualsiasi intervento di una voce autoriale, si traduce automaticamente in perfidia; lo squallore di certe situazioni, come la condivisione di valori e cliché da cui pensavamo di andare esenti, diventano i nostri, per quanto paradossali siano; la riduzione dell'empatia, che qui è metodo, si trasmette anche al lettore, che accetta lui pure come “normali”, o guarda come al resoconto di un'osservazione scientifica, anche le figure e le storie che sconfinano nel patologico o nel fantastico: come il nostro ordito quotidiano, quali difatti sono. Inquietanti ma tranquillamente plausibili, al massimo sfumate di tenue meraviglia.

4) Lucetta Frisa
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Il quarto libro di cui vorrei parlare è L'emozione dell'Aria di Lucetta Frisa (ed. CFR, pp. 88, E. 12,00). Vorrei, ma non lo farò, perché è un libro di poesia e la poesia mi disarma (è anche il motivo per cui che ne sono attratto d'altronde). Non ne so parlare: non ci riesco e non ne sono capace. Dovrei entrare in dettagli che non so maneggiare o finirei per perdermi in parole astratte, non particolarmente simpatiche. Dovrei girarle attorno, in lunghi giri. Camminarci sopra mi ripugna. La prosa la calpesto in lungo e in largo senza problemi (ogni riga che scrivo lo dimostra), la poesia no. Vecchi tabù. Ma allora perché non parlo dei libri in prosa di Lucetta: per esempio dei bei racconti riuniti in La torre della luna nera, ed. puntoacapo, pp. 184, E. 16,00, che contiene alcuni pezzi davvero entusiasmanti, come “Kafka è morto a 67 anni”, o di altri scritti in collaborazione con Marco Ercolani, come gli splendidi Anime strane, Greco&Greco 2006, e Sento le voci, La vita felice, 2009? Ma è semplice: perché Lucetta sopra ogni altra cosa (è anche traduttrice, lettrice a voce alta), è una poetessa. Senza aggettivi qualificativi, che sminuiscono. Una poetessa che mi piace molto. Come poetessa e come donna. E quindi, non potendo parlare della prima, dirò un paio di cose sulla seconda. La prima è che le voglio bene, che come motivo per parlarne già basta e avanza. La seconda non è specificare perché gliene voglio (che senso ha specificare i motivi per cui si vuol bene a qualcuno, ammesso e non concesso che per voler bene ci vogliano dei motivi? Mica sono così meschino...), ma dire almeno cosa mi incanta in lei. Mi incanta la sua capacità di incanto.
Più che una predisposizione, Lucetta ha una vera e propria vocazione allo stupore che non ho riscontrato in nessun altro. Nemmeno nei bambini. Non mi spingerò a dire che i bambini sono stupidi nemmeno se lo pensassi (…), ma è certo che il loro stupore nasce dall'ignoranza, quello di Lucetta anche (come per tutti), ma da quell'ignoranza che sgorga da tutto ciò che sa (che è tanto, come dimostra tutta la sua opera), dalla conoscenza che resta vicina alla sua sorgente, da quanto sa dimenticare in ciò che sa per trasformarlo in capacità di ascolto e di canto. Come se fosse geneticamente predisposta a rispondere a tutto ciò che, in ogni cosa e conoscenza, fa appello all'incanto. Lo chiama in lei, e lei, alla vocazione, risponde. Tiene aperto l'ascolto, e lo sguardo, anche nella sofferenza, di modo che, quando si ripiega in se stessa, non è per chiudersi. ma per esporsi, per ampliare le proprie superfici sensibili interne, lasciare che angoli e spigoli e ogni forma di connessione si moltiplichino, e incidano, nella sua vita prima ancora che nei suoi versi. E' da lì, mi pare, che viene anche la sua disponibilità (e capacità) a lasciarsi abitare, a assumere le parole altrui seguendole sulle loro vie lungo un percorso che ogni volta, alla fine, estrae da esse immagini e cose e suggestioni inedite e al contempo disegna il suo profilo, questo o quel lineamento, e proietta una luce che prima di lei non si conosceva, arricchisce la nostra e la sua conoscenza (la sua di lei), proprio lì, quando si fa porta-voce di altri, come a distogliersi da se stessa, non per esprimersi attraverso la loro voce o per nascondervi la propria, ma per cercarla, e ogni volta trovarla.

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