07/10/15

Bruno Schulz



Ci sono scrittori che, pur non essendo notissimi al vasto pubblico, sono oggetto di un solido culto sotterraneo ma tenace che accoglie sempre nuovi adepti; ogni tanto il loro nome appare qua e là, confuso tra altri e come sussurrato di sfuggita, riconosciuto solo se qualcun altro nel discorso vi fa cenno, ma più spesso sottaciuto, come è giusto, in misura proporzionale alla loro influenza silenziosa; periodicamente fanno capolino per qualche istante, per poi ritrarsi subito come infastiditi dalla luce degli incostanti riflettori: Bruno Schlulz, ebreo galiziano, ma forse sarebbe meglio dire polacco di famiglia ebraica, assassinato cinquantenne nel 1942 dai nazisti, è uno di essi, e quello attuale sembra proprio uno dei momenti in cui tornano alla ribalta. Così accade che il narratore di Vedi alla voce: amore di David Grossman (Mondadori, 1988) riceve come dono d'addio da Ayalah, la sua donna, Le botteghe color cannella e, nonostante una certa diffidenza iniziale, subito se ne innamora ("Lo leggevo come si legge una lettera giunta a noi fortunosamente; come una frammentaria comunicazione pervenutaci da un fratello che avevamo pianto per morto per lunghi anni. Era il primo libro in vita mia che, quando ebbi finito di leggerlo, cominciai subito a rileggere, dalle prime pagine. E da allora – tante e tante volte! Per lunghi mesi non provai il bisogno di leggere nessun altro libro. Per me quello era il Libro...") tanto da lanciarsi alla ricerca delle tracce del suo autore e da farne poi il protagonista di una fantastica epopea sottomarina; il protagonista di Il Messia di Stoccolma di Cynthia Ozick (Garzanti, 1991) crede invece di essere il figlio di Schulz, e coinvolge coloro che gli stanno attorno in questa fissazione, nel culto della sua persona e dei suoi testi, e soprattutto nella ricerca di quelli dispersi o scomparsi, che a volte riaffiorano o vengono all'uopo contraffatti (ma non è certo): sintomi recenti e spettacolari di un culto per lo più silenzioso e sotterraneo che avvolge da sempre questo oscuro insegnante di disegno di provincia, nei cui racconti peraltro già Witkiewicz e Gombrowicz avevano subito riconosciuto la mano di un grande.

Gli elementi che favoriscono la sua mitizzazione del resto non scarseggiano: la vita appartata e insignificante a Drohobycz, dove era nato nel 1892; una famiglia patriarcale e ricca di parenti bislacchi, che sembra uscita dallo stampino del tipico scrittore ebreo austro-ungarico; la tragica morte nel 1942 per mano di un ufficiale nazista che voleva vendicarsi di uno sgarbo subito da un collega che invece lo proteggeva; la scomparsa di gran parte dei suoi manoscritti, specialmente del romanzo Il Messia, al quale aveva lavorato gli ultimi anni della sua vita; nostalgie asburgiche dure a svanire...; ma certo non basterebbero a spiegarne la profondità senza lo straordinario fascino che deriva dal non vasto numero di racconti che di lui ci sono rimasti e che ora Einaudi ristampa nella loro interezza (cioè la raccolta eponima, pubblicata nel 1936, quella successiva, del 1938, ma scritta precedentemente, Il sanatorio all'insegna della clessidra, e il racconto “La cometa”, mentre da tempo esaurito è il volume di Lettere perdute e frammenti, ed. Feltrinelli, che raccoglie gran parte degli altri autografi sopravvissuti alla catastrofe personale di Schulz e di molti dei suoi amici).
"I racconti di Schulz costituiscono un unico ciclo di ricordi d'infanzia, un album di abbaglianti quadretti a colori, dipinti col gusto della pittura domenicale e pervasi di fumisteria, di ironia, di gioco clownesco. Il professore di disegno tramuta in meraviglioso il grigiore e la consuetudine di Drohobycz negli anni terminali dell'impero asburgico", sintetizza Ripellino nella sua pregevole prefazione che, pur analizzando la complessità dell'arte di Schulz con l'eleganza, l'erudizione e la pirotecnia di cui lui solo era capace, la ripellinizza troppo, insistendo sul lato burattinesco e fantanstico a dimostrazione del fatto che spesso i miti devono molto della loro forza alla capacità di accogliere con "pertinenza" le nostre proiezioni più diverse.



A dispetto di evidenti derivazioni teoriche e stilistiche da certa cultura decadente (per es: le cose, a contatto col padre, risalgono "alla radice della loro esistenza, ricostituiscono la loro realtà fenomenica fino al nucleo metafisico"), è evidente che questo è il mondo di un uomo al quale non accade "niente", di una vita "povera" e che è proprio questa la condizione necessaria perché ogni cosa, sia pur minima, acquisti una risonanza cosmica e, soprattutto, mitica. Il meraviglioso, le "cicalerie" e il burlesco di cui questi racconti sono costellati, rappresentano infatti solo un aspetto di quella "mitizzazione della realtà" che secondo Schulz è la "funzione più primordiale dello spirito" e si identifica nella "creazione di storie", il cui scopo è sempre la ricerca del "senso finale del mondo." E il mito, come lo intende Schulz (e come forse come avviene di fatto) si deposita e vive solo nella ripetizione, nel quotidiano e non nell'eccezione o nel sorprendente; al massimo nello scarto minimo, il cui filo viene però seguito fino in fondo, in un quadro che si ripresenta ogni giorno immutato nei suoi motivi e nella sua cornice. E se è vero che talvolta è l'apparizione di una cometa a scatenare le trasformazioni, essa poco si discosta dalla rappresentazione "normale" di quello stesso cielo che è oggetto privilegiato dell'osservazione ossessiva di chi è escluso da eventi eclatanti (o ad essi si nega) per scoprirli invece nel non-umano che costituisce gran parte del suo mondo, non-umano che allora rivela lo straordinario del non mai abbastanza scrutato popolandosi di epopee vegetali e meteorologiche, di tempi "apocrifi" e di "seconda mano", di "strade sosia, ingannevoli e fallaci", di stanze dimenticate in cui ci perde e da cui si ritorna in modo quieto, fino ad attrarre in sé anche l'umano, che vi si assimila e ne deriva metamorfosi che ben poco assomigliano a quelle kafkiane alle quali pure sono state talvolta, erroneamente, accostate.  Perché, assieme e forse al di là dei personaggi straordinari che tengono il campo nel susseguirsi dei racconti, come il padre o la serva Adela, e che passano velocemente (ma stampandosi in una forma, in un eidos atemporale che trae forza proprio dalla perfetta caratterizzazione individuale: il nugolo dei parenti, Dodo e il suo dolore murato, Edzio, il pensionato che torna a scuola), sono le erbe, i fiori, gli insetti, gli uccelli, le ombre, i tessuti, i muri, le strade, il paesaggio, il clima, il vento, le nubi e eil cielo – cioè la materia che su cui Jakub disserta nella "grande eresia" del “Trattato dei manichini” –, a occupare il proscenio della narrazione, e non come sfondo o preparazione delle azioni, ovvero come proiezione dei sentimenti dei personaggi, ma come protagonista che li determina, li attrae e inghiottisce come una delle tante proprie forme, e come queste li sottopone alla propria legge dell'inarrestabile mutamento.
Se infatti il padre, come afferma giustamente Ripellino, è l'alter ego dello scrittore, allora anche i suoi discorsi, per quanto deliranti e presentati ironicamente (ma si sa che l'ironia è spesso il modo migliore per nascondere, e per affermare nella negazione, i convincimenti più sentiti), possono essere letti come riflessioni dello scrittore, ed anzi come la teoria dell'opera di cui fanno parte, ed allora non apparirà strano che sia appunto la materia "dotata di una fecondità senza fine" (perché "non esiste la materia morta"), ma "contro la quale è stata commessa una spaventosa illegalità," a costituire non solo il soggetto principale del "programma di quella seconda demiurgia" che il padre aveva in mente, ma anche la protagonista dell'opera del figlio che ne costituisce la realizzazione. Il padre infatti, con le sue alternanze di tranquillità e scoppi d'ira, di immobilità catatoniche ed esuberanza vitale, di fughe metafisiche e concretezza mercantile, di regressioni che prendono la forma di rimpicciolimenti e metamorfosi e di ritorni alla normalità, pur essendo sempre alla ricerca del senso di un mondo la cui essenza è andata perduta, del nocciolo profondo della materia dietro le sue metamorfosi, è a sua volta malato di stessa indecisione e provvisorietà del mondo e resta condannato ad un'essenza intermedia. Le possibilità che egli rincorre in continuazione non si consolidano mai, il nocciolo profondo trasmigra e si modifica ogni volta che una nuova possibilità gli alla sua apprensione e identificazione, trasferendo le sue promesse da un oggetto all'altro, poi ad un insetto, ad un condor e a un crostaceo..., nei quali egli finisce per identificarsi, mai abbastanza vivo, pur con tutta la sua vitalità, né mai del tutto morto, pur dopo la sua scomparsa, incapace anche lui, come tutto, di acquietarsi nella pace del definitivo. Di quel definitivo al quale anche Dio sembra essersi precluso l'accesso quando ha interrotto spaventato la creazione (mentre lo scrittore, accettata serenamente la propria esclusione dalla vita, – è soltanto in questi momenti che riesce a scrivere, dice nelle lettere, mentre ogni volta che cerca di entrare in un'esistenza più forte, questa lo travolge e lo turba tanto da precludere anche a lui la creazione...) .
"Sei giorni della creazione furono divini e chiari. Ma il settimo Dio crollò. Il settimo giorno Egli si sentì una materia estranea sotto le mani e, spaventato ritrasse la mano dal mondo, benché il suo ardore creativo fosse ancora calcolato per molti giorni e notti." L'opera di Schulz è forse la ripresa di questa creazione interrotta, l'esplorazione delle possibilità evase da Dio, il recupero dei frammenti che non hanno trovato un'articolazione, di miti che forse sembrano persi, ma che in realtà nessuno ha mai potuto dimenticare perché accedono all'esistenza per la prima volta solo nella parola che li fa affiorare dall'indeciso e dal provvisorio in cui sono sempre stati confinati: una seconda creazione che soltanto chi è riuscito a maturare “verso l’infanzia” in quella regressione verso "un'infanzia reintegrata" che è "l'unico genere d'arte che sta a cuore" a Schulz, riesce talvolta a portare a compimento, frugando tra le "vicende non nate", sepolte nei "libri mai scritti, libri-eterni pretendenti, libri erranti e perduti in partibus infidelium," come lo sono ora anche alcuni dei suoi.




Le botteghe color cannella, di Bruno Schulz,  Einaudi, 1991, pp. XXIX - 280, £. 11.000
Trad. di A. Vivanti Salmon, prefaz. di A.M.Ripellino


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