13/10/15

Cartine (geografiche). E atlanti e mappamondi.





Quando leggo tutto quello che raccontano tanti scrittori anche miei coetanei, o di poco più anziani (e pazienza per quelli dal primo 900 in giù, fino all’epoca degli astrolabi, dei mappamondi giganteschi e degli affreschi vaticani), rievocando gli atlanti e le carte geografiche della loro infanzia, con tutte quelle meravigliose immagini, i paesi distinti da colori squillanti con i loro nomi impronunciabili quanto suggestivi, e le illustrazioni con i percorsi e la lunghezza dei grandi fiumi, il profilo delle montagne più famose e gli imbuti delle fosse oceaniche, e le piante e gli animali di tutte le forme e dimensioni, con i rivestimenti più strani, e grinfie e zanne e musi spaventosi a popolare le paure notturne, i brividi controllati del giorno accanto alla mamma o alla domestica, e le fantasie di fuga e ritrovamento, e di misteri e avventure e agnizioni principesche, che ne sgorgavano in pomeriggi lunghissimi e, manco a dirlo, noiosissimi prima di entrare in quel mondo incantato, e sempre solitari e un po’ febbrili, ma fervidi poi, e trasognati e malinconici ma colmi della più compiuta felicità che i tapini abbiano mai provato e che non sono più stati capaci di recuperare dopo di allora, se non nel ricordo… oppure nelle serate in cui stavano chiusi nella cameretta, con le voci dei genitori che echeggiavano da lontano e nessuno (nessuno!) che si presentava a abbracciarli e a baciarli, e le fantasie diventavano incubi, le immagini si animavano e prendevano corpo e ti assalivano, e il bambino sprofondava davvero nell’abbandono, se ne sentiva avvolgere come di una cappa pesante, fisicamente soffocante, tanto che il respiro diventava affannoso, e si bloccava e poi erompeva di botto in un singulto, in un pianto o un grido a cui magari nessuno accorreva, o accorreva tardi, sempre troppo tardi, perché la paura e la solitudine si erano ormai insediate per sempre nelle fibre più riposte del corpo, nei condotti segreti dell’anima, e non se ne sarebbero più andate, mai più… quando leggo tutte queste rimembranze non so quanto reali o posticce, o gonfiate ad arte o consolatorie, mi chiedo com’è che a me non è mai, e dico mai, neppure lontanamente, successo qualcosa del genere.


Che razza di mostro insensibile devo essere stato! O magari ero solo un bambino normale, di una normalità diversa dalla diversità che accomuna tutti quei sognatori così simili tra di loro (o con i ricordi così simili negli anni successivi), e che avevo altro da pensare e da fare. Altri modi di giocare. Anche di stare solo.
In cartine e atlanti io ci vedevo solo capitali e confini da imparare a memoria, bandiere da distinguere e riconoscere, tracciati di fiumi da individuare con l’esatta distribuzione degli affluenti e l’ordine delle lunghezze, la loro classifica (come quella delle serie A e dei marcatori; le formazioni, l’ordine dei gol e i singoli autori partita per partita, e le date di nascita e i dati fisici e l’elenco delle squadre in cui ogni giocatore aveva militato erano uno sfoggio a parte) e quelle dei monti, e le risorse, le principali attività produttive, flora e fauna, e ancora catene montuose, golfi, coste, isole, mari interni e laghi, e tutti li imparavo e tenevo a mente, con le rispettive distanze, i fusi orari, gli abitanti complessivi e quelli delle regioni e delle città contraddistinte da piccoli cerchi, o da cerchi dentro cerchi, o da quadrati e da quadrati entro quadrati, o da cerchi con una pallina nera al centro, o quadrati con un quadrato nero all’interno, e ancora li tengo a mente quasi tutti, e non come giaculatorie da ripetere o rosari apotropaici da sgranare: li richiamo quando mi servono, e a volte, rarissimamente, per puro piacere, e tanti saluti.


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