23/02/16

Silenziare





Silenziare non è chiedere silenzio, o indurvi qualcuno perché posto di fronte a una verità condivisa; no, è il gesto di imporre il silenzio: dove accanto e forse più dell’oggetto dell’imposizione o delle circostanze che la renderebbero necessaria (a teatro, in un’aula…), a importare è il gesto stesso. Perché tutto sta lì: ancora prima dei suoi effetti, tutto sta già nel potere di pensare il gesto, di pensarlo legittimo e doveroso, e poi di effettuarlo. L’uso del verbo mette l’accento sull’azione. Sulla sopraffazione.
Non so se chi adotta il termina silenziare ci pensa (magari è una persona ragionevole, aperta), però io ho come idea che chi lo usa è qualcuno che a fare silenzio invece non è disposto, che il silenzio nemmeno sa cos’è, e che anzi del silenzio ha paura.
Silenziare vorrebbe dire, per costui, ridurre al silenzio chi parla o può parlare al posto suo: non chi parla contro di lui, ma chi con il suo solo aprir bocca sottrae spazio alla sua parola; chi, parlando, chiede ascolto e, così facendo, distrae dall’ascolto del suo discorso, lo interrompe o offusca, se addirittura non lo cancella. Lui invece vuol parlare sempre, non vuole che il silenzio si insinui nelle sue parole e, insieme, insinui il sospetto che il troppo pieno della sua voce galleggi su un vuoto di senso sempre incombente: che il senso delle sue parole non sia quello di ciascuna di esse e del loro insieme, ma quello del puro dire, l’urgenza fàtica di tenere la linea, di tenerla sempre occupata: di accaparrarsene la proprietà. La proprietà esclusiva.
Vuole silenziare, chi è uso ad alzare la voce. Chi grida e non sente ragioni. Chi grida perché ragioni non vuole sentirne. Chi ha la forza dei polmoni (dei microfoni, delle frequenze, del patrimonio, della gerarchia) e non tollera che un inferiore, uno zero, un altro, alzi la mano, chieda: posso?, e apra, con la sua prima, semplice parola, un altro mondo.


Pomarancio,  Basilica di Santo Stefano Rotondo al Celio
Sopra, foto mia non ricordo dove (Parma? Padova?)

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