22/02/16

Uccello librato in aria





C’era questo uccello sospeso a una quindicina di metri sopra un prato. Sbatteva le ali fermo a mezz’aria, con le remiganti che vibravano velocissime, senza riuscire a spostarsi di un centimetro. Per un attimo ho pensato che fosse un tipo particolare di aquilone, o un falchetto o altro piccolo rapace che veniva addestrato, tanto più che, in fondo alla stradina sterrata, c’erano due figurine che guardavano in quella direzione e si agitavano senza spostarsi loro pure: una che accostava all’occhio una macchina fotografica con un grosso teleobiettivo; l’altra che impugnava qualcosa che poteva anche essere il rocchetto di un filo o un guanto o un cappuccio di pelle, e faceva una specie di balletto intorno alla prima, piegandosi sulle ginocchia con lo sguardo di sott’in su e poi rialzandosi con un braccio teso e la testa rivolta verso il cielo sopra il prato. Intanto l’uccello continuava a aprire e chiudere le ali accelerando sempre più, e sempre inutilmente, con le penne caudali aperte a triangolo, così tese che la luce passava tra l’una e l’altra come se fosse un ventaglio ricamato a maglie larghe o con le asticelle unite da una garza trasparente sottilissima.
Sembrava inchiodato contro il cielo, con le sole ali che potevano ancora muoversi, dispiegate come la colomba dello spirito santo in certe annunciazioni o pentecoste, ma uno spirito santo crocifisso. Non riuscivo a distogliere lo sguardo, se non per sbirciare velocemente, con la coda dell’occhio, la pantomima delle due donne che ora si fotografavano a vicenda disinteressandosi di ogni altra cosa, estasiate dalla reciproca contemplazione.
Dopo non meno di una ventina di secondi, un tempo che mi è parso interminabile, l’uccello ha smesso di librarsi nell’aria e, piegando appena le ali, ha disegnato una piccola curva in discesa. Forse il suo, di balletto, non aveva avuto esito; forse aveva sentito un richiamo che a me era sfuggito; o forse era solo stremato. È sceso per cinque metri e ho pensato che avesse trovato la corrente giusta e la stesse imboccando per ripartire; invece, dopo aver percorso un breve tratto in orizzontale, ha smesso del tutto di sbattere le ali e, senza nemmeno raccoglierle a sé, è caduto a perpendicolo verso il prato. È ferito!, mi sono detto. Ora si sfracella… Ma con mia grande sorpresa, e piccolo sollievo, appena urtato violentemente il suolo erboso con un tonfo che ho avvertito chiaramente, l’uccello, quasi di rimbalzo, come Caco al contatto con la terra madre, è risorto ed è volato via, verso un filare di robinie sul margine di un fosso, dove si è installato sul ramo più alto e sottile di una che sporgeva verso il prato, fissando, di nuovo immobile, ma saldo ora, un punto lontano. Forse niente, ma laggiù, verso l’orizzonte dietro le rare case. Un po’ d’ansia per la sua sorte mi era rimasta, però; mitigata dalle evoluzioni delle danzatrici a cui mi stavo avvicinando. Mentre mi incamminavo verso la macchina, mi sono voltato a guardare, ma l’uccello era sparito. Volato via, passato su un altro ramo, caduto di nuovo, non so. Quando sono arrivato nei pressi delle due donne, hanno recuperato entrambe la postura eretta e si sono date un contegno. Il corteggiamento, se tale era, poteva sopravvivere a una pausa. Ho chiesto se anche loro avevano visto. Sì, ma solo quell’inconsueto dibattersi a mezz’aria. Avete capito che uccello era?, ho chiesto. No, nonostante quel grosso obiettivo non erano riuscite a riconoscerlo. Poi si sono distratte, cioè sono passate a una diversa attenzione, e non hanno seguito più niente. Forse era una ghiandaia, ho detto io vedendone una posarsi sul ciglio della strada a pochi metri da noi. Forse, hanno detto loro. E ci siamo salutati .
No, non credo che fosse una ghiandaia, ho poi commentato tra me e me. La coda non era così lunga. I colori erano diversi. Non era neanche uno dei tanti corvi o colombi di questa zona…
Forse non era niente. Forse niente è successo. E nemmeno quelle donne erano reali.
Forse non ho visto davvero ciò che ho raccontato e me l’ha inscenato solo la mia angoscia, la deriva immaginaria con cui quell’infame crede di rendere più accettabile la sua compagnia. Ma no! Ho visto. Magari ho frainteso cosa avevo visto, ma di aver visto sono certo. Di non avere sognato né inventato.
Lo so. Ma preferirei pensarlo se anche così non fosse.
(Più ancora, però, preferirei il corteggiamento. La danza.)


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